riVIVERE

27 gennaio 2021

Giorno della memoria

Il 27 gennaio 1945, la 60esima armata dell’esercito sovietico abbatteva i cancelli di Auschwitz. Da quel momento inizia il percorso del Giorno della Memoria, ufficialmente istituito dal Parlamento italiano con la Legge 20 luglio 2000, n. 211 in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti.

In due articoli la Repubblica italiana riconosce l’importanza di “conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia del nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere” (art.2).

“Conservare nel futuro dell’Italia la memoria”: espressione carica di stimoli, pensieri, intenzioni che, in pochissime parole, si muove tra passato, presente e futuro. “Conservare”, dal latino con- e servare, indica la volontà di tenere vivo e sano qualcosa di prezioso in maniera che duri a lungo, per evitarne la perdita, la dispersione, l’erosione, la distruzione. È un termine che sottintende attenzione, cura, dedizione, ascolto verso un qualcosa che è importante in quanto bene comune. E questo bene comune, nell’art. 2 della norma, è la “memoria”, cioè la capacità di conservare traccia di informazioni, immagini, sensazioni, idee. La prescrizione approfondisce e connette la memoria e la sua conservazione al “futuro dell’Italia”, non è l’hic et nunc - il qui e l’ora - che preoccupa ma ciò che sarà, ciò che si può immaginare possa succedere ancora. Nell’art. 2 della Legge sono in gioco almeno due delle tre modalità mnesiche principali: la memoria sensoriale, quella che coinvolge le sensazioni, le esperienze vissute o l’abilità empatica di “sentirle”, e la memoria secondaria a lungo termine che conserva e permette di richiamare i ricordi anche dopo anni, dopo un tempo lungo.

Queste tre parole – conservare, memoria, futuro - hanno accompagnato la scelta di tre libri. Scelta, come sempre arbitraria, incompleta, ma possibile. Non sono narrazioni che parlano della Shoah, ma sono testi impregnati del clima, dell’atmosfera, delle condizioni di quel momento storico. Creano una cornice o uno sfondo “ambientale” o un immaginario futuro, insinuando incertezze, ponendo domande e fornendo anche alcune risposte.

Mai violenza! È il titolo - in italiano - del discorso pronunciato della scrittrice e intellettuale svedese Astrid Lindgren il 22 ottobre 1978 in occasione del Premio per la Pace a lei assegnato dai librai tedeschi, ed edito in Italia per Salani Editore nel 2019.

È un libro piccolo, di arancio vestito, con una grafica del font originale e invasiva, che non lascia spazio alle incomprensioni. Anche la lingua usata è asciutta, chiara, veloce nel condurre il messaggio al lettore: si deve partire – o ripartire – dai bambini, perché “quelli che ora sono bambini assumeranno un giorno la guida del nostro mondo, ammesso che ne rimanga qualcosa” (p.30). Come non sentire la stringente attualità di queste parole e la loro forza comunicativa.

“Un bambino circondato da affetto che vuole bene ai suoi genitori impara da loro a guardare con amore a tutto ciò che lo circonda e mantiene lo stesso atteggiamento di fondo per tutta la vita. E questo è un bene, anche se non diventerà uno di coloro che determinano il destino del mondo. E se contro ogni previsione dovesse diventarlo, sarà una fortuna per tutti noi se sarà predisposto all’amore e non alla violenza” (p.37).

Astrid Lindgren, in questo breve discorso, discute attorno alla sua idea di “utopia”: “se dunque alleviamo i nostri figli senza violenza e maniere forti di alcun genere, otterremo una specie umana capace di vivere nella pace perenne? (p. 47) […] Forse, nonostante tutto, con il tempo potrebbe rivelarsi un piccolo contributo alla pace nel mondo” (p. 48). Quella pace che non c’è, perché la “vera pace non esiste sulla Terra e in realtà non è mai esistita se non come un obiettivo che evidentemente non riusciamo a conseguire” (p.24).

Immagina di essere in guerra è un libro ancora più piccolo: in realtà è un passaporto, quello di una volta, con le piccole pagine rettangolari quasi rigide di color rosa pallido e la copertina bordò opaco, che portava con sé tutti i timbri dei luoghi visitati.

Per Feltrinelli KidS, che nel 2014 traduce grazie a Maria Valeria D’Avino una pubblicazione danese del 2004, Janne Teller e l’illustratrice Helle Vibeke Jensen mettono su carta un preciso e spietato scenario: “Se oggi in Italia ci fosse la guerra … tu dove andresti? Se le bombe avessero distrutto quasi tutto il paese, quasi tutta la città? Se nell’appartamento in cui vivi con la tua famiglia le pareti fossero piene di buchi, le finestre rotte, i balconi strappati via? Sta arrivando l’inverno, il riscaldamento non funziona e piove dentro casa. L’unica stanza abitabile è la cucina …” (p.7).

Questa è solo una parte dell’incipit del libro, che come un razzo proietta (letteralmente) il lettore in un mondo altro, in un altrove. Il lettore diventa immediatamente il tu protagonista del racconto e dopo pochi paragrafi la paura, la fame, il freddo entrano dentro. Capisci che sei nel nuovo mondo dove “nessuno dovrà essere democratico” (p.12), dove la tua “famiglia è un numero, Cinque. Nessun paese è disposto ad accogliere altri cinque profughi” (p.14). Poi, arriva la notizia e ti imbarchi, parti come rifugiato e da quel momento la “vita è dura. Niente è più come prima (p.35). Ma tu vuoi “ricordare a tutti i costi. Che la tua vita non è sempre stata una lotta per essere italiano, solo italiano, di dentro e di fuori … Vuoi ricordare che francesi e austriaci non hanno sempre sparato addosso a te e a i tuoi, che esiste un’altra vita. Se te ne dimenticassi, niente avrebbe più senso … Un’altra vita esiste” (p.23).

Jenne Teller, che proviene da una famiglia di rifugiati austriaco-tedeschi immigrati in Danimarca, elabora in modo originale un perfetto meccanismo di immedesimazione e invita tutti i ragazzi a mettersi nei panni di un giovane rifugiato, che aveva una vita che non è andata per nulla nella direzione desiderata. Nella Postfazione al libro, l’autrice afferma che il testo è stato scritto come un invito a immaginare, per cui era necessario che per ogni traduzione la narrazione subisse degli adattamenti per essere tangente alla storia e alla geopolitica del paese di riferimento, così ogni traduzione è un unicum.

Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale è un saggio di filosofia, pubblicato per Bollati Boringhieri nel 2020. La professoressa Elena Pulcini parte da alcune domande: “Perché ci prendiamo cura degli altri anche quando non siamo legati da rapporti personali? Perché lottiamo per la giustizia anche quando non ci riguarda direttamente? Quali sono insomma i fondamenti motivazionali che ci spingono ad agire eticamente e ad adottare comportamenti socialmente empatici?” (p. 9).

Il punto di vista è quello che proviene dalla psicologia morale che affronta il problema delle motivazioni affettive che stanno alla base della domanda di giustizia e della disposizione alla cura verso gli altri. L’autrice conduce una trattazione sull’idea che sia necessario riflettere sul ruolo che le passioni (invidia, indignazione, paura, compassione, risentimento, amore etc.) e i sentimenti svolgono nell’ispirare la domanda di giustizia e l’atto di cura. Prendere sul serio il tema delle passioni e delle emozioni, senza vederne solo in lato negativo, significa parlare di etica della giustizia ed etica della cura, mettendone in risalto la componente relazionale, generativa ed empatica. Ed è questa potenzialità etica che è importante rilevare per cambiare “radicalmente la nostra vita, il nostro rapporto con gli altri, se stessi, il mondo” (p.14), rilevando l’importanza di quel soggetto emozionale che si rivolge in maniera nuova all’altro distante nello spazio (lo straniero, il diverso) e all’altro distante nel tempo (le generazioni future).

Mai violenza!Immagina di essere in guerra, Tra cura e giustizia sono tre testi molto diversi tra loro, ma uniti da un concetto-simbolo, quello dell’ “immaginazione”. La forza dell’immaginazione vista non tanto come il libero pensare a partire da un contenuto dato ma come quella capacità di formare immagini, di elaborarle, svilupparle, deformarle per andare nell’altrove o verso l’altro da me e sentirlo risuonare internamente. “Questa immedesimazione avviene […] grazie alla facoltà dell’immaginazione, attraverso la quale arriviamo a sentire, sebbene con un’intensità più debole, le stesse emozioni dell’altro, siano esse di gioia o di tristezza” (Tra cura e giustizia di Elena Pulcini, p.21).

parte di: riVIVERE

27/01/2021