Con decreto del 1° ottobre 1934 del Regio commissario per la liquidazione degli usi civici di Trento e di Bolzano a Castelfondo, ex comune divenuto frazione di Brez, venne riconosciuto il diritto alla gestione separata dei beni frazionali, assegnando alla frazione stessa tutti i beni soggetti ad uso civico: nel 1935 venne approvato il regolamento per l'uso dei beni frazionali da parte dei censiti della frazione di Castelfondo (l'articolo 43 del R.D. 26 febbraio 1928, n. 332 stabiliva che i beni soggetti ad uso civico dovessero venire amministrati secondo le disposizioni di apposito regolamento impartito secondo le disposizioni della Regia Prefettura di Trento). Data la scarsità dei redditi patrimoniali, essendo l'entrata di molto inferiore alle spese della frazione, si ritenne che la costituzione dell'amministrazione separata sarebbe stata oltremodo dannosa agli interessi dei frazionisti; Castelfondo dunque rinunciò alla costituzione dell'amministrazione separata. Fino al 1939 dunque non venne compilato un bilancio separato, mentre dall'esercizio 1940 - in considerazione dell'elevato reddito per taglio ordinario di boschi - si ritenne opportuno predisporre e gestire il bilancio separato della frazione.
Atti relativi all'A.S.U.C. si trovano talora frammisti alla documentazione del comune.
Gli usi civici sono dei diritti che gruppi di persone (ravvisabili nella collettività degli abitanti di un comune o frazione o in una collettività di altro tipo) esercitano, "uti cives", su terreni e beni, come pascoli, boschi, malghe, etc. appartenenti al loro comune o frazione. Tali diritti consistono in varie forme di uso o godimento dei beni ed i principali fra essi sono quelli di pascolare ed abbeverare il bestiame, accogliere erba e strame o legna per uso domestico, ottenere legname per la costruzione e la riparazione di case d'abitazione, cavare ghiaia, sassi o pietre da costruzione. La definizione "usi civici" deriva dal fatto che i diritti in questione spettano agli abitanti di un determinato luogo in dipendenza della loro qualità di cittadini (cives) e fintanto che siano tali. Nello stesso tempo questi usi hanno assunto nomi diversi a seconda di quale fosse l'oggetto del diritto esercitato: si parla perciò di legnatico, stramatico, erbatico, boscheggio, etc. Sono diritti che, negli ultimi decenni, hanno perso progressivamente il loro contenuto economico anche per le popolazioni montane e rurali, tuttavia la loro esistenza è ormai assicurata dalla legge e comunque alcuni di tali usi, come il diritto di pascolo e alpeggio e di raccolta della legna, vengono tuttora esercitati e fatti valere. Infatti i beni soggetti ad uso civico appartengono alla generalità dei cittadini di un comune o di una frazione in diritto esclusivo e perpetuo e questi cittadini vengono rappresentati dall'organo (Comitato) previsto dalla legge. Questi diritti appartenenti collettivamente a tutti i cittadini di un luogo sono comunque del tutto distinti e staccati dal generico diritto d'uso degli altri beni di cui il comune o la frazione dispongono a vantaggio della collettività. Essi non vanno intesi peraltro come diritto di proprietà ("ius utendi atque abutendi"), bensì come diritto d'uso a favore del civis nel senso indicato dall'art. 1021 del Codice Civile, non essendone il civis stesso, ma la generalità degli abitanti del luogo, il titolare. Da un punto di vista tecnico-giuridico, i beni d'uso civico sono classificati come "beni demaniali" nel senso indicato dal Codice Civile (art. 822 e segg.) e contrapposti a quelli che sono definiti invece "beni patrimoniali". In passato, si riteneva che fossero "demaniali" i beni destinati all'immediata soddisfazione di bisogni pubblici (e quindi beni essenziali per l'esplicazione delle funzioni proprie dell'ente pubblico), mentre la dottrina attualmente prevalente rileva come esistano anche beni non demaniali che presentano tali caratteri (ad esempio gli armamenti) e ritiene quindi che il criterio distintivo tra "beni emaniali" e "beni patrimoniali" sia meramente formale. Sono demaniali i beni che la legge indica come tali, nel nostro caso i beni d'uso civico, sono patrimoniali gli altri. L'appartenenza al demanio pubblico comporta per i relativi beni l'assoggettamento alla disciplina prevista dall'art. 823 del Codice Civile, secondo cui i "beni demaniali" sono "inalienabili" e non possono formare oggetto di diritti in favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano" e quindi sono sostanzialmente "indisponibili".
In definitiva, appare particolarmente significativa la definizione che dei beni d'uso civico ha dato la Suprema Corte di Cassazione in data 5 gennaio 1951: "Le terre del demanio universale o comunale sono di proprietà delle popolazioni, non dell'ente pubblico. Il pascolo ed il legnatico integrano l'antichissimo uso delle popolazioni di ritrarre dalle terre le utilità essenziali per la vita, e debbono annoverarsi fra le forme sopravviventi del primitivo collettivismo agrario, che hanno permesso per secoli alle popolazioni di partecipare al godimento in natura di terre, di pascoli e di boschi. Gli usi civici trovano il loro fondamento nell'antico dominio delle popolazioni che, per soddisfare i bisogni essenziali della vita, usavano delle terre in certi modi determinati. Tali usi hanno continuato a sussistere anche dopo l'emanazione delle leggi sull'abolizione delle feudalità".
Per quanto riguarda la storia di questi diritti, all'inizio dell'Ottocento sia il governo bavarese che il Regno d'Italia napoleonico mantennero distinti i beni collettivi delle frazioni o di altri nuclei aggregati dai beni che costituiscono i demani e i patrimoni dei comuni e ne regolarono il funzionamento.
Alla legislazione austriaca era invece sconosciuto il concetto di uso civico inteso come semplice diritto d'uso di un bene a favore dei cittadini di un comune o frazione. Gli usi civici erano considerati dalla legge austriaca come "servitù prediali", cioè si ricorreva alla finzione giuridica secondo cui beni privati ed edifici rurali, in qualità di "fondi dominanti", potevano vantare il diritto di pascolo, legnatico, stramatico, etc. su beni comunali considerati a loro volta alla stregua di "fondi serventi". E' per questo che, negli atti esistenti negli archivi comunali trentini, i diritti d'uso civico figurano come servitù. Tuttavia, con la Patente Imperiale n. 130 del 5 luglio 1853, si riconoscevano i diritti d'uso collettivo, si cercava d'impedire la quotizzazione delle terre e s'imponevano le destinazioni dei terreni comuni ad uso della popolazione che ne aveva bisogno. Il Rescritto ministeriale 11 dicembre 1850 n. 13353, contenente disposizioni per la vecchia legge comunale provvisoria del 17 marzo 1849 B.L.I. n. 170, distingueva i beni in: 1) patrimonio comunale, liberamente disponibile; 2) beni d'uso pubblico, cioè strade, piazze e simili; 3) beni comunali, cioè boschi e pascoli, destinati all'uso esclusivo dei membri del comune. Il Rescritto aggiungeva che, quand'anche il sopravvanzo dei redditi rimasti, dopo che fossero stati soddisfatti i bisogni delle famiglie, dovesse affluire alla cassa comunale, non veniva per questo mutata la natura giuridica dei beni. La legge comunale austriaca n. 1 del 9 gennaio 1866, al paragrafo 63, stabilì che i cittadini o abitanti del comune, qualora l'uso di beni comunali fosse ammesso da diritti o consuetudini, non potessero tuttavia ricavarne un utile maggiore di quello necessario per sopperire ai bisogni della loro casa o dei loro beni stabili e ciò affinchè non prendessero piede diritti speciali in favore di qualcuno.
La Rappresentanza comunale avrebbe dovuto regolare la partecipazione agli utili dei beni comunali, non potendo comunque prescindere dalla limitazione stabilita dalla legge. Gli utili avanzati perchè in eccesso rispetto ai bisogni dei cittadini avrebbero continuato ad essere versati nella cassa comunale.
Dopo l'annessione del Trentino all'Italia, la legge n. 9 del 11 gennaio 1923 mantenne, all'art. 24, il rispetto degli speciali titoli di diritto e delle consuetudini che disciplinavano il godimento dei beni comunali ma in seguito, dopo una notevole quantità di parziali riforme, studi e proposte, si giunse finalmente alla legge n. 1766 del 16 giugno 1927 detta, in senso tecnico-giuridico, di liquidazione, cui seguì il regolamento di applicazione n. 332 del 26 febbraio 1928. Scopo della legge era quello di abolire le forme residue di promiscuo godimento delle terre e di disciplinarne la proprietà nelle diverse forme (privata, pubblica e collettiva) e constava di tre parti principali:
1. l'accertamento dell'esistenza di usi civici sulle terre, e la classificazione dei diritti relativi, suddivisi in "essenziali" (necessari ai bisogni della vita) ed "utili" (a scopo d'industria) (art. 1-4);
2. la liquidazione dei diritti, in tre modi: "gli usi civici esercitati dai comuni sui beni dei privati" (ad esempio il diritto di vendere erbe, stabilire i prezzi dei prodotti, far pagare tasse per il pascolo ed altri simili) dovevano essere affrancati, con divisione delle terre ed eccezionalmente con compenso (artt. 5, 6 e7); "le promiscuità", cioè i diritti delle popolazioni di un comune o di una frazione su beni di altri comuni o frazioni, dovevano essere sciolte senza compenso (art. 8); "le occupazioni su terre d'uso civico" appartenenti ai comuni o alle frazioni, purchè perduranti da almeno dieci anni con migliorie apportate al fondo dall'occupante, dovevano essere legittimate mediante concessione all'occupante verso canone enfiteutico (artt. 9 e 10);
3. la disciplina e regolamentazione dei terreni assegnati ai comuni o alle frazioni o alle associazioni agrarie, con loro distinzione fra terreni utilizzabili per la coltura agraria (da ripartire in quote e dare alle famiglie dei coltivatori diretti, a titolo e con canone enfiteutico) e terreni utilizzabili a bosco e pascolo permanente.
Questi ultimi venivano assoggettati alle norme stabilite dalla Legge forestale (Cap. II, Tit. 4 del R.D. n. 3267 del 30 dicembre 1923) e dichiarati "aperti agli usi di tutti i cittadini del comune o della frazione", con amministrazione separata dagli altri beni, a profitto dei frazionisti, qualunque ne fosse il numero (artt. 12 e 26); tale amministrazione veniva affidata da un apposito Comitato. Riguardo al Comitato, l'art. 64 del Regolamento d'attuazione della legge stabiliva che la sua costituzione spettava alla Giunta provinciale amministrativa e che doveva essere composto di tre o cinque membri scelti fra i frazionisti. All'amministrazione separata delle frazioni dovevano essere applicate le disposizioni della legge comunale e provinciale ed ogni amministrazione frazionale doveva restare soggetta alla sorveglianza del Podestà del comune, che poteva sempre saminarne
l'andamento e rivederne i conti. All'attuazione di quanto disposto dalla legge avrebbero dovuto provvedere i commissari regionali per la liquidazione degli usi civici istituiti dall'art. 27 della legge stessa, ai quali si dovevano fare, fra l'altro, le dichiarazioni da parte di chi esercitava o pretendeva di esercitare dei diritti d'uso civico.
In seguito accadde che molti comuni trentini venissero ridotti, mediante aggregazioni e fusioni, da 371 a 113, in applicazione del D.L. n. 383 del 17 marzo 1927. Tuttavia, anche a seguito di un eccessivo egocentrismo a favore del capoluogo di comune attuato in molti casi dai podestà, si manifestò in tutte le frazioni una tendenza a reintegrare la sovranità sui loro beni. Oltre all'art. 26 della già citata legge n. 1766 del 1927 e all'art. 64 del relativo regolamento d'attuazione, venne a vantaggio delle aspirazioni delle frazioni anche la Legge comunale e provinciale n. 383 del 3 marzo 1934 che, all'ultimo comma dell'art. 84, recitava: "L'amministrazione separata dei terreni assegnati ad una frazione è affidata dal Prefetto ad un Commissario scelto, di regola, fra i Frazionisti". C'era stata inoltre anche una sentenza della Corte di Cassazione (la n. 3233 del 18 dicembre 1922) che aveva fissato il principio secondo cui, quando un comune viene aggregato ad un altro, i beni d'uso
civico del comune soppresso non diventano beni patrimoniali del comune che lo assorbe. In seguito all'emanazione della legge comunale e provinciale del 1934, laddove fosse avvenuto il riconoscimento della natura demaniale dei beni da parte del Commissariato agli Usi Civici, ci fu la possibilità di nominare nelle frazioni i commissari per le amministrazioni separate. L'art. 84, che prevedeva un commissario frazionale agli usi civici, rappresentava un'innovazione rispetto all'art. 64 del pregresso regolamento del 1928 che parlava invece di comitato d'amministrazione, come del resto ha affermato, nel 1949, anche la Corte di Cassazione (sent. n. 1283 del 16 luglio).
Il Ministero dell'Interno, con la circolare n. 15100/15.1 del 21 maggio 1947, dispose la ricostituzione, previa consultazione popolare, dei comitati nella forma prevista dal più volte citato art. 64. Tale ricostituzione avvenne di fatto in molte frazioni in Trentino tanto che, nel 1949, esistevano ben 200 amministrazioni separate frazionali . Nel 1948, con l'intervento dell'autonomia regionale per il Trentino-Alto Adige accordata con legge costituzionale n. 5 del 26 febbraio 1948, la Provincia di Trento venne investita di potestà legislativa primaria in materia di usi civici (art.11 n. 8) e in base all'art. 1 delle norme di attuazione dello Statuto speciale emanato con D.P.R. n. 1064 del 17 luglio 1952, le potestà amministrative esercitate in materia di usi civici dal Ministero dell'Agricoltura e Foreste, furono trasferite alle Giunte provinciali di Trento e Bolzano. In questa fase il compito delle amministrazioni separate frazionali è chiarito dalla circolare del Presidente della Giunta Provinciale n. 18365/1.III del 23 novembre 1951. Ad esse spettava la sola amministrazione dei terreni di originaria appartenenza alle frazioni, cioè i beni demaniali quali risultavano dal decreto di assegnazione emanato dal Commissariato regionale agli Usi Civici. Non potevano acquistare beni patrimoniali bensì solo beni su cui eventualmente si potessero estendere i diritti d'uso civico (boschi, pascoli, malghe) nè incaricarsi dell'esecuzione di opere pubbliche come scuole, acquedotti, chiese, cimiteri, etc., che rientrano invece nell'ambito di competenza del comune. La loro attività doveva essere diretta allo sviluppo, accrescimento e miglioramento dei beni di uso civico e solo a questi: costruzione o migliorie di malghe, di strade che conducano a boschi o pascoli, rimboschimenti, etc. Nella circolare del 23 novembre 1951 si affermava però espressamente che, dalle deliberazioni pervenute alla Giunta Provinciale per i prescritti controlli, derivava la
sensazione che le amministrazioni separate estendessero indebitamente le loro attività anche a compiti non di loro competenza come appunto la costruzione di scuole, di edifici e di opere pubbliche che la legge poneva a carico dei comuni, e proprio questo fatto aveva determinato la necessità delle precisazioni e disposizioni date dalla circolare stessa.
Successivamente fu emanata la legge provinciale n. 1 del 16 settembre 1952, modificata poi dalla legge n. 6 del 9 maggio 1956, con relativo regolamento di esecuzione (D.P.G. n. 4 del 11 novembre 1952). La legge disponeva che all'amministrazione dei beni comunali d'uso civico doveva provvedere il Consiglio comunale (art. 2), mentre i beni d'uso civico appartenenti alle frazioni dovevano essere amministrati separatamente, a profitto dei frazionisti da un comitato di tre o cinque membri (a seconda che la popolazione della frazione fosse di meno o più di duecento abitanti). Questa disposizione dava finalmente una certa chiarezza alla questione di chi dovesse occuparsi dell'amministrazione degli usi civici, tendeva a disciplinare il funzionamento tecnico ed amministrativo dei comitati, vietandone l'ingerenza sui beni patrimoniali che il comune possedesse nella frazione, e stabiliva il concorso alle spese generali del comune mediante mediante un annuo contributo obbligatorio. Alla nomina del comitato stesso si sarebbe dovuto provvedere con una consultazione a cui potevano partecipare tutti i capifamiglia titolari di uso civico sui beni frazionali. La sua durata in carica era di quattro anni; ogni suo atto doveva essere concretato mediante apposita deliberazione. Tali deliberazioni erano prese a maggioranza di voti e dovevano essere pubblicate e sottoposte all'approvazione della Giunta provinciale nei modi stabiliti per le deliberazioni comunali. Esso, nell'esercizio delle sue funzioni, poteva servirsi del personale addetto all'ufficio comunale ed in particolare del tesoriere comunale.Nel regolamento di esecuzione della legge provinciale del 1952 si legge che l'amministrazione separata della frazione, non appena costituita, doveva provvedere a:
- trascrivere su apposito registro le deliberazioni adottate dal Comitato d'amministrazione;
- compilare un inventario completo dei "beni" di uso civico, risultanti dal decreto di assegnazione delle terre (art. 42 del Regolamento n. 332 del 26 febbraio 1928), e dei "diritti" risultanti dall'accertamento eseguito dal Commissario regionale per gli usi civici;
- compilare un bilancio, riferito all'anno solare, dal quale risultassero entrate ed uscite; entro il primo ottobre di ogni anno i Presidenti delle amministrazioni separate avrebbero poi dovuto presentare al sindaco un bilancio per l'esercizio successivo. Parimenti, i comitati d'amministrazione avrebbero dovuto redigere il conto della loro gestione da depositare nell'ufficio frazionale e in quello comunale, dopo aver nominato un collegio di tre revisori scelti fra i frazionisti per l'esame del conto stesso;
- compilare un regolamento da sottoporre all'approvazione della Giunta provinciale e della Camera di Commercio;
- redigere un elenco dei cittadini aventi diritto d'uso civico e dei capifamiglia che li rappresentavano, elenco da tenere costantemente aggiornato;
- occuparsi dell'impianto della contabilità, da tenere sempre aggiornata con un giornale di cassa, un libro mastro, un sistema di reversali e mandati, uno scadenziario delle entrate e delle spese, un ruolo di esazione delle entrate;
- tenere un repertorio dei contratti e una raccolta completa dei contratti stessi e loro allegati.
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