Alcuni storici fanno risalire al IX secolo le prime testimonianze sull'esistenza in Arco di un collegio dei canonici; l'arciprete Santoni, per dimostrare l'antichità della Collegiata di Arco e la sua origine derivante dall'antica regola canonicale (1), condusse a prova un documento pergamenaceo del 1186 estratto dall'archivio segreto dei conti d'Arco nel quale è a parer suo dimostrato che i canonici di Arco condividevano una sola abitazione (2).
Questi canonici erano in sostanza sacerdoti che facevano vita comune vivendo secondo un "canone" (3), cioè una regola di vita fissata in modo preciso. Il gruppo che essi formavano veniva chiamato "collegium" e da qui il titolo di "collegiata" per la chiesa da essi servita. Il collegio doveva, secondo la regola, riunirsi spesso in un determinato luogo per sentire la spiegazione dei capitoli della regola stessa e per prendere qualche deliberazione. A questo luogo e alle loro riunioni si diede il nome di "capitolo", termine che dal XIII secolo assunse anche il significato del corpo stesso o del collegio dei canonici.
I canonici non effettuavano la cura d'anime, che era in contrasto con la vita canonicale e gli impegni che questa prevedeva: l'osservanza della disciplina ecclesiastica e la quotidiana officiatura. Per celebrare i divini uffici ogni canonico aveva il suo stallo nel coro della chiesa. Il diritto di avere "voce in capitolo", cioè la facoltà di esprimere il proprio parere e dare il proprio voto nelle adunanze capitolari, e lo "stallo in coro", divennero i segni distintivi di ogni canonico.
A capo del collegio veniva nominato un "priore" (4) che aveva il compito di convocare tutti i canonici e proporre l'affare da discutere in capitolo.
Le chiese "collegiate" ebbero quindi come primo essenziale carattere quello della forma di collegio. Nel corso dei secoli si operò una distinzione tra le chiese che avevano l'esclusivo carattere di collegiate, cioè quelle tendenti unicamente alla quotidiana celebrazione dei divini uffici, e quelle che comprendevano anche la parrocchialità, ossia il diritto di cura. Distinzione non significò però incompatibilità, ma il diritto di cura spettava solo all'arciprete ed escludeva il Capitolo: questo fu il caso della chiesa Collegiata di Arco.
Nel XIII secolo il vescovo Gerardo determinò, essendo la Collegiata di Arco una di quelle che rientravano nel gruppo delle "non numerate" (5), che il numero dei canonici dovesse corrispondere a dieci, compreso l'arciprete. Ogni canonico aveva la sua dotazione e la propria casa canonicale.
Nel XV secolo avvenne un'altra variazione nel numero dei canonicati: in questo periodo i canonici erano alquanto negligenti rispetto alla loro residenza e godevano spesso di più benefici che li portavano a frequenti e lunghe assenze. Fu così che nel 1420 papa Martino V, su preghiera dell'arciprete, dei signori d'Arco e delle comunità, incaricò un suo delegato di prendere le dovute informazioni e di procedere contro i canonici fino alla soppressione dei loro benefici. Il numero dei benefici canonicali fu così ridotto a tre e fu stabilito l'obbligo di residenza per i canonici (6).
Il conferimento dei benefici canonicali spettava al vescovo di Trento, che nominava anche il parroco. Nelle investiture vescovili la cura d'anime della Collegiata di Arco veniva espressamente assegnata al suo arciprete, mentre non si trova mai conferita nelle investiture dei canonici. I canonici non venivano quindi ammessi al diritto parrocchiale, ma al solo esercizio delle funzioni di cura come coadiutori dell'arciprete stesso.
L'esercizio della cura e non il suo diritto diede però adito a fraintendimenti: i canonici ritenevano di essere "comparroci" dell'arciprete poiché settimanalmente e a turno esercitavano la cura "fuori per le ville". Il diritto alla parrocchialità fu quindi per un certo periodo condiviso, ma diede luogo a numerose liti e ad inconvenienti nella cura d'anime. Nella prima metà del XVIII secolo i rappresentanti delle quattro comunità della contea d'Arco (7) e i signori d'Arco decisero di far ricorso all'autorità vescovile per stendere uno statuto che regolasse i diritti della parrocchia.
Dopo lunghe questioni nel 1764, mediante un formale e solenne Statuto, furono precisati i diritti e i doveri relativi.
Deputato, fra gli altri, alla stesura del documento fu chiamato l'allora maestro don Francesco Santoni in qualità di procuratore e mandatario delle comunità arcensi. A lui fu riconosciuto quasi tutto il merito della riuscita di questa riforma.
Lo Statuto si articolava in venti capitoli: il primo, fondamentale, sanciva che al solo arciprete spettava il diritto di parrocchialità (8); i canonici conservarono il diritto, divenuto dovere, di cooperare in cura d'anime sotto la direzione e l'assistenza dell'arciprete. Secondo le direttive del parroco essi dovevano ascoltare le confessioni, assistere alla celebrazione dei divini uffici, assistere gli infermi (9). Venne riconfermato anche l'obbligo per i canonici di risiedere presso la propria casa canonicale.
Con l'aumento delle rendite canonicali e al fine di garantire una degna ufficiatura nella Collegiata si raddoppiò il numero dei canonici, che divennero perciò sei.
Tutti i beni e proventi delle prebende canonicali confluivano in un'unica massa; ogni anno le entrate venivano equamente suddivise tra i canonici, ma dalla massa canonicale veniva detratta una somma per l'arciprete a cui solo competevano le spese di mantenimento dei cappellani e del predicatore quaresimale, e quelle per la provvista del vino per le messe.
L'amministrazione veniva affidata a turno ad uno dei canonici, il cosiddetto "massaio capitolare" (10): il "massaio" deputato si avvaleva dell'assistenza di due persone, una della quali nominata dai conti d'Arco e l'altra dalla comunità. Egli aveva tra gli altri il compito di registrare su un apposito libro tutti i beni lasciati al Capitolo o ai capitolari, beni la cui rendita veniva ogni anno equamente suddivisa in tante parti quanti erano i canonici più un'altra parte, perché all'arciprete ne spettavano due in quanto egli era insieme canonico e parroco. Nel caso in cui le rendite avessero superato la cifra di 220 fiorini si doveva erigere un nuovo canonicato.
Tra i canonici vi era anche quello deputato settimanalmente alle celebrazioni, il "canonico ebdomadario" e quello che copriva annualmente l'ufficio di sacrista o tesoriere, il "canonico sacrista"; il più anziano tra tutti veniva identificato come "canonico seniore".
Al tempo dello Statuto dipendevano direttamente dall'arciprete le chiese filiali di San Giacomo sul Monte Stivo, di San Lorenzo sul Colle e di Sant'Apollinare in val di Prabi. Ad un canonico era inoltre riservata di diritto la carica di priore delle confraternite erette nella Collegiata e del Monte di Pietà di Arco.
Il 18 gennaio 1809 il governo bavaro intimò la soppressione della Collegiata e il 7 dicembre 1811 un nuovo ordine decretò la soppressione del Capitolo. Per evitare la requisizione delle prebende i canonici dimostrarono la loro qualità di coadiutori nella cura d'anime annessa ai canonicati facendo così riconoscere anche al governo che le prebende canonicali della chiesa parrocchiale di Arco avevano in sé l'obbligo della cura d'anime. Venne quindi dimostrato che tutti i canonicati avevano inerente la cura d'anime poiché i canonici erano a tutti gli effetti cooperatori del parroco; per questo motivo i loro canonicati erano da ritenersi alla pari dei benefici curati. La soppressione e l'incameramento dei beni furono scongiurati ma solo nell'agosto del 1814 gli antichi diritti della Collegiata di Arco vennero ristabiliti.
Il conferimento dei canonicati, come anche dell'arcipretura, spettava al vescovo di Trento.
Nel 1769, grazie a don Giovanni Battista Baldessari (11), fu fondato un settimo canonicato. La dotazione del canonicato Baldessari fu unita alla massa capitolare in modo tale da non differenziarsi dagli altri sei canonicati di fondazione anteriore, con i quali condivideva rendite e oneri.
Esisteva anche un ottavo canonicato, il canonicato Rigotti, istituito con testamento del 13 gennaio 1725 dal conte Sigismondo d'Arco, canonico di Augusta e Salisburgo, a favore della famiglia Rigotti dalla quale discendeva il suo cappellano e segretario Antonio Rigotti da Poia. Questo particolare canonicato era "sine cura et sine residentia": l'investito non aveva infatti né l'obbligo di risiedere in Arco, né quello di cooperare nella cura d'anime. Il comune di Arco e il Capitolo però si opposero: una sentenza pronunciata nell'aprile 1777 dichiarò che il possessore del canonicato Rigotti fosse obbligato alla residenza nella chiesa Collegiata di Arco (12). La sentenza non venne mandata in esecuzione e solo nel 1823 le rappresentanze comunali pretesero e ottennero che anche l'investito Rigotti dovesse al pari degli altri canonici risiedere e collaborare nella cura d'anime di Arco. Questo canonicato non fu mai incorporato alla massa capitolare ma formò sempre una mensa diversa.
Nel 1910 il governo riconobbe competere ai canonici della Collegiata di Arco il carattere di sacerdoti ausiliari e pertanto venne ad essi assegnato dal Fondo di Religione la congrua legale. La nuova situazione e l'introduzione del nuovo codice di diritto canonico fecero sì che si rendesse necessaria una riforma del vecchio statuto settecentesco proprio per adeguarlo ai nuovi bisogni di cura d'anime.
Il nuovo statuto del Capitolo della Collegiata di Arco fu pubblicato nel 1926, previe approvazioni da parte del Capitolo (delibera capitolare del 30 novembre 1924), del vescovo di Trento (atto vescovile del 14 aprile 1925, n. 962 Cap.) e revisione dell'Ordinariato (decreto del 9 dicembre 1926, n. 962/25 Capit.).
Ribadito il concetto che capo del Capitolo era l'arciprete cui spettavano diritti e obblighi della cura d'anime, al primo punto del nuovo statuto fu posto: "Il Capitolo della chiesa collegiata di S. Maria Assunta in Arco consta di sette canonici, che partecipano ai proventi delle sette prebende canonicali, e sono sacerdoti ausiliari nella cura d'anime della parrocchia di Arco" (13). In seguito alla riduzione del reddito delle sette fondazioni canonicali non più sufficienti al sostentamento di altrettanti canonici, lo statuto ridusse a tre i canonici e precisò che "coll'eventuale aggregazione del canonicato Rigotti potranno essere nominati quattro canonici in tutto". I capitoli che seguivano regolamentavano le nomine, gli uffici dei canonici, i loro diritti e privilegi, le modalità delle riunioni capitolari, gli obblighi per la cura d'anime, le distribuzioni e le presenze corali, l'amministrazione capitolare e la "puntatura corale"(14).
Il 7 dicembre 1987 l'arcivescovo Alessandro Maria Gottardi approvò una nuova revisione, nella quale al primo punto si trova questa definizione: "Il Capitolo Collegiale di S. Maria Assunta di Arco è una stabile espressione di comunione del Presbiterio parrocchiale nell'esercizio del ministero liturgico e della quotidiana preghiera di lode, ringraziamento e supplica a nome e a vantaggio di tutta la comunità parrocchiale e diocesana" (15). Da statuto il numero dei canonici era fissato a sette; relativamente all'amministrazione veniva confermato che i beni del Capitolo formavano una massa comune che veniva ripartita ai fini del dignitoso sostentamento dei canonici, per il contributo annuale per la gestione della chiesa Collegiata e per opere di carità. Il Capitolo assicurava ai canonici "abitazione propria preferibilmente nell'ambito delle case canonicali, con possibilità di opzione secondo anzianità di nomina".
Il Ministro dell'Interno in data 22 giugno 1988, visti gli artt. 4,5,6 della L. n. 222 del 20 maggio 1985, attestò che l'ente "Capitolo della chiesa r. c. Collegiata di Santa Maria Assunta" avente sede in Arco era da ritenersi dotato di personalità giuridica civile (Tribunale di Trento, Reg. persone giuridiche, n. 73).
L'ultima revisione dello statuto del Capitolo è del 2000: non vi sono sostanziali modifiche rispetto al precedente: al capo I relativo alla struttura del Capitolo viene precisato che "1. Il Capitolo Collegiale è una stabile espressione del Presbiterio diocesano (16) ... 4. Il Capitolo consta di sette canonici ... Ai sette canonici effettivi si aggiungono quei canonici che raggiunta l'età di 80 anni diventano "emeriti" e rimangono membri onorari del Capitolo, senza diritto di voto nelle decisioni capitolari e senza prebenda". Il capo V relativo all'amministrazione precisa la ripartizione dei redditi derivanti dalla massa capitolare e la loro gestione, punto sostanzialmente non differente da quello del precedente statuto.
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