La notizia più antica relativa all'esistenza di una cappella in Celentino risale al 1301 (1) e probabilmente non molto tempo dopo la piccola comunità poteva valersi di un cappellano stabile, dipendente comunque dal pievano di Ossana. Dal 1500, epoca della consacrazione della chiesa, le notizie si fanno più frequenti e complete: da una pergamena del 1513 sappiamo della presenza in paese del cappellano "Bartholomeo, parmense" (2). In occasione della visita pastorale del 1579 gli uomini di Celentino "humiliter petientur sibi dare facultatem et licentiam tenendi et habendi posse in eorum ecclesia fontem baptisterii" (3), adducendo a motivo di tale richiesta la difficoltà di raggiungere la chiesa di Ossana, soprattutto nei mesi invernali, con il conseguente pericolo per i neonati. L'anno seguente il vicario generale Giovanni Alessandrini concesse il battistero (4). La comunità, cui spettava il diritto di patronato, aveva l'obbligo di mantenere il proprio curato e di offrirgli l'abitazione. Nel 1722 il curato don Giovanni Battista Antonio Bezzi (5), rispondendo alle domande per la visita pastorale, così descriveva gli oneri della cura e il suo reddito: "L'aggravio che sostengo è d'applicare una messa per ogni fuoco che sarano circa settanta et amministrar li sacramenti. Ricavarò per tal cura cento e quaranta ragnesi ... Habito la casa canonicale" (6). L'onorario per il curato veniva corrisposto per due terzi in denaro e il restante in grano o segale. La comunità provvedeva inoltre il curato della legna necessaria, ma gli lasciava l'onere del taglio e della conduzione. Tale disposizione muterà alla fine del XVIII secolo quando, dietro pagamento da parte del curato di 50 troni annui, spetterà alla comunità l'obbligo di tagliare la legna e di condurla in canonica (7). La curazia di Celentino, che dipendeva dalla parrocchia di Ossana, pagava alla matrice un tributo annuo di una libbra di cera rossa, ma nel 1797 la comunità chiese la facoltà di liberarsi dall'obbligo; la richiesta fu inoltrata all'arciprete Luigi Bevilacqua che il 25 luglio rispose: "Va benissimo che Celentino sborsi a vantaggio di questa venerabile chiesa parrocchiale il capitale per la libra di cera rossa che paga annualmente ... Direi dunque ... che e per l'importo totale della cera ... si paghino da Celentino fiorini alemanni 40 e così rimanga sgravato da questo peso perpetuo" (8). La sudditanza nei confronti della matrice andò quindi riducendosi e al parroco rimase solo il diritto di celebrare il Titolare. Fermo restando la riverenza e l'obbedienza verso il parroco, la cura già agli inizi dell'Ottocento era considerata indipendente nell'amministrazione dei sacramenti (9), ma il decreto che tale la riconosceva arrivò nel 1894. Il 2 gennaio il parroco di Ossana, don Pietro Valentinelli, certificò alla Curia di Trento "che il curato pro tempore di Celentino ... è autorizzato all'esercizio indipendente della cura d'anime ...: benedice matrimoni senza delegazione del parroco di Ossana, tiene i registri dei nati, dei matrimoni e dei morti sotto propria responsabilità, ne estrae i certificati, tiene corrispondenza immediata con tutte le autorità ecclesiastiche e civili personalmente ..." (10); l'autorità vescovile con rescritto dell'8 gennaio riconobbe la dichiarazione del parroco e l'indipendenza della curazia di Celentino venne sancita anche dall'autorità civile nel luglio dello stesso anno. In base a tale riconoscimento competeva al curatore d'anime la congrua che lo Stato riconosceva a chi esercitava indipendentemente la cura d'anime, che nel 1900 ammontava a 1200 corone. Rispondendo al Capitanato distrettuale di Cles, il curato don Giovanni Serra (11) dichiarò di percepire "dal Comune cor. 600, dal Comune la legna cor. 40, dal Fondo di religione cor. 565 e dalle messe legatarie cor. 52. Totale cor. 1257" (12).
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