C’Mon Tigre

Musica

Tradizione e sperimentazione.

Si muovono in bilico tra questi due territori, i C’mon Tigre, duo attorno al quale ruotano musicisti provenienti da più parti del mondo. Ed è un collettivo multicolore, quello che hanno messo insieme per la loro seconda prova, “Racines”, in uscita l'8 febbraio 2019 per BDC/!K7. Il titolo è una parola francese che significa “radici”, laddove le radici sono quelle musicali in cui piedi, testa e cuore dei C’mon Tigre sono immersi, e da cui, con i loro brani contaminati, spiccano il volo per creare ambientazioni sonore inedite.

Nel loro nuovo disco i suoni del Mediterraneo - il mare della loro terra -, si intersecano, intrecciano e sovrappongono con un caleidoscopio di altre sonorità e un approccio nuovo, basato - spiegano - “sul tipo di lavoro che avevamo fatto riarrangiando il primo album per i live, quindi enfatizzando la parte sintetica dei pezzi”. Quel lavoro, questa volta, è stato portato avanti da subito: “La composizione dei brani ha previsto sin dall’inizio l’utilizzo di macchine e sintetizzatori come base per l’intervento di strumenti acustici. L’obiettivo era di riprocessare in maniera più contemporanea il terreno dell’influenza mediterranea da cui il nostro progetto è indubbiamente partito”.

Le dieci tracce di “Racines” sono nate in momenti di intimità: per i C’mon Tigre il nucleo iniziale di idee compositive deve rigorosamente appartenere alla dimensione dell’istinto, della naturalezza. Ma poi c’è l’urgenza che quel nucleo esploda e dia vita ad altre idee e suggestioni, e affinché ciò accada lo scambio con altri musicisti e la creazione di una famiglia allargata e geograficamente tentacolare è fondamentale. Da qui il coinvolgimento, in questo “Racines”, di Danny Ray Barragan aka DRB, Mick Jenkins, Pasquale Mirra, Beppe Scardino, Mirko Cisilino, Marco Frattini, Jessica Lurie, Amy Denio, Tina Richerson, Sue Orfield, Alessandro Rinaldi, Henkjaap Beeuwkes. Immaginatevi un cantiere aperto dove bassi e chitarre dialogano con fiati, synth, percussioni, vibrafoni, immergendo l’ascoltatore in un viaggio sonoro sensuale e ipnotico. Salpando dal bacino del Mediterraneo e lasciandosi guidare dalla fascinazione per l’Africa e il Medioriente, i C’mon Tigre danno forma a un linguaggio inedito, originale, fatto di commistioni con il jazz, l’afrojazz, le ritmiche dell’hip hop, il funk, la disco anni Settanta. Il tutto senza mai chiudersi in uno stile, ma spingendo al massimo l’esplorazione quale dimensione che ogni viaggio degno di questo nome dovrebbe racchiudere. “Con i musicisti con cui lavoriamo ci si passa la palla fino alla fine, i brani possono prendere direzioni diverse in ogni momento”. Il risultato è un disco meticcio, cosmopolita, che sfugge a qualsivoglia etichetta per l’affermazione di un’attitudine libera. Attitudine che ha portato i C’mon Tigre a cercare una connessione con la cultura del dancefloor, pur se intesa solo come evocazione da rivisitare e rimanipolare in modo assolutamente personale. “Per la prima volta abbiamo usato delle voci sintetiche, ma trattate alla maniera primordiale, non con vocoder, ma con dei vecchi talk box che ci hanno dato la possibilità di modulare le parole pilotandone il suono”. Una via, questa, che si abbina a testi che hanno il sapore del racconto cinematografico, non importa si tratti della sceneggiatura noir di “Underground Lovers” - canzone su un’ossessione amorosa che sfocia nel dramma - o della storia retrofuturista di “Behold The Man”, su un uomo adulto che sbarca sul pianeta mondo senza detenere alcuna conoscenza e che si ritrova, dunque, costretto a imparare tutto, compreso il significato della parola “libertà”.