Alle origini della pieve di S. Lorenzo, storia e archeologia del costruito e del contesto

Per una settimana il complesso è stato materia di studio come un libro che si sfoglia pagina per pagina

Dopo aver dato spazio alla storia della pieve, continuiamo puntando l'attenzione sul laboratorio di studio che vi si è svolto.

"Il titolo è chiaro e impegnativo allo stesso tempo - spiega Gabriella Maines -. Una settimana di studio e approfondimento sul campo – tanto è durato il laboratorio - come dovrebbero poter fare tutte le scuole, soprattutto quelle che sul proprio territorio hanno monumenti così importanti. L’attività ha dato molte risposte, ma - cosa altrettanto rilevante - ha generato nuove domande, punto di partenza per successive indagini.

Un secondo presupposto funzionale ha contribuito al buon esito del progetto: una tematica chiara in partenza, un campo di ricerca ben definito, strumenti e metodologie comprovate: “ricerca partecipata” è stata definita dagli organizzatori, col fine di coinvolgere più studiosi, specialisti, studenti e persone interessate alle diverse materie affrontate.

La scelta della pieve come soggetto dello studio è motivata dalla sua importanza storica e dal valore artistico e architettonico delle costruzioni. Chiesa, battistero, canonica e rustici hanno una presenza fisica molto eloquente e, insieme, un’importante storia religiosa, economica e sociale. Per una settimana il complesso è stato materia di studio privilegiata, proprio come un libro che si sfoglia pagina per pagina e si approfondisce non appena presenta un concetto più interessante o più difficile degli altri. Allo stesso modo gli studenti guidati da tutors e  docenti hanno ispezionato, controllato, codificato ogni pietra a vista della chiesa, soprattutto quelle più curate della facciata, quelle che suggeriscono un loro uso più antico e poi sistemate in epoche successive, ma anche quelle nascoste del sottotetto, le quali proprio perché celate alla vista delle persone, non sono state intonacate o livellate e perciò risultano più leggibili, mostrano tuttora le tecniche di costruzione, i ripensamenti dei costruttori, le modalità dei restauri e degli ampliamenti. “Molte ragnatele, polvere e cigolii a non finire” ha detto una studentessa, ma il suo tono non era deluso, anzi le difficoltà hanno rafforzato la sua soddisfazione.

In altre parole l’intera esperienza può essere vista come la ricerca di una storia materiale, economica e sociale fatta a partire dai muri e dalle pietre, da pareti e  coperture, archi, aperture della chiesa e degli annessi per elaborare una classificazione cronologica degli eventi costruttivi.

Nel tardo pomeriggio di ogni giornata, all’attività sul campo degli studenti docenti e  alcuni specialisti (Gian Pietro Brogiolo/Università di Padova, Enrico Cavada/Soprintendenza per i beni culturali, Stefano Camporeale/Università di Trento, Marco Avanzini e Riccardo Tomasoni/Museo delle Scienze,  Graziano Riccadonna/Centro Studi Judicaria) si sono alternati per spiegare argomenti e metodi attinenti il laboratorio di ricerca con riferimento a geologia e materie prime, tecniche delle costruzioni antiche, archeologia dell’architettura, stratigrafia dell’edilizia storica.

Innanzitutto si è sfatato un luogo comune: si può fare archeologia senza scavare? Pare proprio di sì, se prendiamo come materia di analisi le pietre e le tecniche costruttive usate per erigere l’edificio sacro e le sue pertinenze e in seguito per restaurare, ampliare, elevare la chiesa. È un punto di vista interessante che non parte dal terreno e cerca in basso, ma dal terreno verso l’alto.

Molte le domande che hanno dato l’avvio: l’architettura, la tecnica, il cantiere e la sua durata, la sua organizzazione, il suo procedere nel tempo, i costi e la quantificazione delle persone coinvolte. Dallo studio delle pietre e del loro intonaco gli studenti sono riusciti a ricavare dati utili per stabilire la quantità di lavoro giornaliero, per verificare quali siano le parti originali e quali opera di ampliamento, di modifica o di restauro, dove il materiale sia stato riutilizzato e dove si possano individuare le varianti e gli interventi di rinforzo.

Non riusciamo certo a stabilire quanto costasse un cantiere di questo tipo in termini di vite umane, quante famiglie delle comunità chiamate a parteciparvi fossero rimaste prive del padre perché caduto da un’impalcatura o perché schiacciato da un grosso peso. Ciò che invece si può però ricavare dai segni e dalla perizia del cantiere è la certezza che vi lavorarono abili scalpellini e muratori capaci, guidati da capomastri che conoscevano bene il loro mestiere, ma anche contadini e gruppi delle diversi classi e categorie sociali della comunità tenuti a collaborare ai lavori con versamenti in denaro o con la propria mano d’opera. Servivano non solo pietre squadrate, sbozzate e ben levigate con piccozzina, subbia e scalpello, anche sassi, ciottoli e calcestruzzo per i muri non in vista, travi e chiodi per il tetto, assi e legname per le impalcature e i ponteggi che erano sostenuti dai pali infilati in fori dei muri, visibili ancora oggi. Si doveva portare il materiale sulla spianata del cantiere e poi alzarlo con carrucole e corde su in alto, in cima alle pareti e anche sopra alla copertura per completare il tetto. Non serviva solo forza fisica, ma anche ingegno e colpo d’occhio.

Il lavoro poi doveva essere pianificato, con una turnazione e un’organizzazione delle attività rigidamente controllata dal massaro della fabbrica per permettere all’ingegnero o al magistro murador di dirigere e procedere senza intoppi, mentre i pagamenti erano effettuati, probabilmente, dal pievano stesso o da un suo fidato collaboratore.  Immaginiamo l’andirivieni continuo sulla piazza della pieve: tutta la comunità, in un modo o nell’altro, era coinvolta.

 

 

Gabriella Maines

07/03/2016