“Economia. Il prezzo della guerra”

Per capire davvero un conflitto occorre approfondirne anche gli aspetti economici: ne ha parlato presso il Teatro Sociale di Trento Gianni Toniolo nell'ambito della quarta "Lezione di storia"

[ servizio attività culturali Pat]

La Prima Guerra mondiale ha avuto ricadute sociali devastanti a livello di perdite umane, ma per capire davvero un conflitto occorre guardarne e comprenderne le premesse ed i risvolti economici. Questa la tesi esposta oggi (domenica 25 ottobre) alla platea del Teatro sociale di Trento dal professor Gianni Toniolo, nel corso della quarta Lezione di storia del ciclo Laterza, introdotta da Alessandro De Bertolini, storico trentino.

Toniolo - docente di Storia economica alla Luiss di Roma e professore emerito alla Duke University in Nord Carolina - ha da sempre concentrato i suoi studi  sugli aspetti "monetari" che stanno alla base dei fenomeni sociali e che possono spiegare meglio di qualunque altra cosa il “fenomeno” guerra.

A partire dalle cause del conflitto e dal contesto economico in cui fermentò. Gli anni precedenti alla Prima guerra mondiale furono definiti Belle Epoque, segnando la prima vera globalizzazione, con grande disponibilità di prodotti e capitali che affluivano in Europa. Ogni globalizzazione, però, ha vincitori e vinti, perché cambia la distribuzione del reddito fra classi sociali all'interno dei paesi, e soprattutto fra le nazioni. E da questi disequilibri nascono le guerre. La Germania, ad esempio, cresceva più velocemente dell'Inghilterra, ma si lamentava da tempo del fatto che gli inglesi monopolizzassero le aree di influenza (e le colonie) nel mondo, con i tedeschi che reclamavano il proprio “posto al sole”.

Poi vi erano quelli interessati alla guerra per vendere i propri prodotti. Fra i capitalisti, invero, vi era solo una minoranza favorevole alla guerra, ma molto organizzata e che sapeva come fare breccia nei pensieri dei politici, riuscendo a imporre la propria visione. Alla base di questa idea del conflitto, ci stava però una sottovalutazione generale delle conseguenze.

«Se avessero saputo che sarebbe finita a quel modo – ragiona Toniolo - le classi politiche europee non avrebbero mai fatto la guerra. Nella quale persero tutti. Ma allora si confidava in un conflitto lampo, di tre mesi».

La guerra invece non fu breve, anche perché il sistema economico aveva in quegli anni un livello di organizzazione tale da supportare questo sforzo immane. Alla fine vinse quello più forte, quello che seppe produrre grano, cannoni, navi e fu chiaro a tutti che si trattava innanzitutto di una guerra economica.
Già, ma in cosa si sostanzia un'economia di guerra? - si è domandato Toniolo. La sua essenza è nella trasformazione di qualunque tipologia di industria in produzione bellica, operazione per la quale serve organizzazione e tante risorse economiche, che vanno così “distratte” dai bilanci degli Stati. Occorre dunque in primis ridurre i consumi delle popolazioni, con conseguenti problemi di consenso elettorale. Occorre poi che lo stato diventi regolatore assoluto della produzione.

Guardando al caso dell'Italia, occorreva uno sforzo supplementare, perché la nostra era allora un'economia essenzialmente agricola (bastino questi termini di paragone: la nostra produzione di acciaio era di 0,9 mln di tonnellate, contro i 17,6 della Germania, il conto delle mitragliatrici era di 618 a 3000). L'Italia però riuscì a vincere questa sfida e al contempo a mantenere incredibilmente la produzione agricola precedente, grazie alla donne ed ai vecchi che andarono nei campi a surrogare chi era partito per il fronte.

E qui arriviamo allo step successivo. Come si finanzia una guerra? Occorre che lo Stato “si appropri” di una quota del reddito nazionale, attraverso quattro possibili vie. Aumento delle tasse, aumento del debito pubblico, stampa di carta moneta, requisizione diretta delle materie prime. Queste modalità non sono però politicamente “neutre”, ciascuna espone gli Stati a rischi sociali e di consenso e dunque ciascuna nazione si regolò a seconda della propria peculiare situazione interna.

L'Inghilterra ad esempio aumentò le tasse, in Germania si stampò cartamoneta, con effetti devastanti sull'inflazione che si sarebbero riflessi anche sugli anni successivi. L'Italia optò per l'emissione di titoli di debito pubblico, con una chiamata generale a sostenere la nazione: i manifesti per la sottoscrizione per i prestiti nazionali ci restituiscono ancora oggi la forza di quel messaggio patriottico e rappresentarono finalmente un grande successo.

Tutto ciò premesso, quale eredità lasciò la guerra? «Dal 1915 – ha spiegato Toniolo - si arriva per una serie ininterrotta di un'unica guerra civile europea al 1951». Nei mesi successivi alla guerra furono infatti commessi errori decisivi: uno su tutti, quello della Francia, che pretese maxi-risarcimenti di guerra dalla Germania senza darle l'opportunità di far prima ripartire la propria ecomomia. Così gli Stati Uniti prestavano soldi alla Germania con i quali essa pagava poi le riparazioni (132 miliardi di marchi il conto che la Germania doveva saldare). Ma nel 1929, a causa della grande crisi, gli Usa dovettero “chiudere i rubinetti” e dunque nacque una spirale di iper-inflazione che portò poi al potere Hitler, che riarmò la Germania. E tutto ricominciò, confermando che le dinamiche economiche sono alla base di tutti i processi politico-sociali.

Perché dunque si arriva al 1951? Perché in quell'anno con la fondazione della Ceca (Comunità europea carbone e acciaio) si mise fine a secoli di guerre per le aree del carbone. Fu un momento storico.

«E allora – ha concluso Toniolo – dobbiamo riconoscere che questa Europa unita, oggi molto criticata, ci ha regalato 70 anni di pace, che mai c'erano stati nella storia di questo continente. Anche in quest'ottica dobbiamo rivalutarla».  #LezionidiStoria

Roberto Bertolini

25/10/2015