City of God

Cinema

Brasile, 2002
Titolo originale: Cidade de Deus
Durata: 130'
Genere: Azione/Drammatico
Regia: Katia Lund, Fernando Meirelles
Cast: Alexandre Rodrigues, Matheus Nachtergaele, Seu Jorge, Leandro Firmino da Hora

Fine degli anni Sessanta. "Buscapé" è uno dei tanti undicenni di "Cidade de Deus", una favela di Rio de Janeiro. Timido e fragile, osserva gli altri ragazzini del quartiere che rubano, partecipano a risse e si scontrano quotidianamente con la polizia. Ma lui sa già cosa vorrà fare da grande, se riuscirà a sopravvivere: diventare fotografo. Nel frattempo, "Dadinho", un ragazzino della sua stessa età, si trasferisce a Cidade de Deus: sogna di diventare il peggior criminale di Rio de Janeiro e comincia l'apprendistato mettendosi al servizio dei delinquenti della zona.
Presentato in concorso al Festiva di Cannes 2002

Tratto dall’omonimo libro di Paulo Lins (in Italia edito da Einaudi), bestseller in Brasile, City of God è una pellicola importante. Non tanto perché racconta la storia di una favela di Rio de Janeiro nell’arco di trent’anni (nel corso di questi tre decenni le vite dei protagonisti si incrociano, si inseguono più volte a creare un incastro di tempi e luoghi: la voce narrante è quella di Buscapé, ragazzino all’inizio degli anni Sessanta, giornalista-reporter alla fine degli Ottanta; poi ci sono le bande che si contendono il territorio per il controllo del traffico di droga, ci sono armi, sparatorie, morti, c’è la polizia corrotta, ci sono storie d’amore…). Né perché è in parte girato nella favela stessa, con attori presi dalla strada e “iniziati” da un corso-laboratorio di otto mesi (che significa improvvisazione, slang, attori che ripropongono se stessi davanti a una cinepresa). È importante perché l’esperimento linguistico di City of God è fenomenale. Spiazzante. Un ritmo vertiginoso, una fotografia che va dal seppia ai colori sgargianti del Sudamerica, una voce off alla anni Sessanta, ralenti e fermo immagine (che ruotano su se stessi), incastri temporali, flashback, flashward… Viene in mente un po’ di tutto, da Tarantino, ovviamente, allo Scorsese più metropolitano, al western senza legge né padroni. Meirelles crea un impianto scenico pieno, superlativo, barocco. Reinventa le fasi di una testimonianza, di una storia vera, perché quella del libro è una vicenda realmente accaduta. Carica una finzione, una giostra di apparizioni, dialoghi, ammazzamenti a freddo, bambini killer, strade insanguinate, senza concedere il tempo alla riflessione. Occupa lo spettatore con una visione totalizzante, con un ritmo privo di pause nel quale una morte violenta è solo l’ultima prima di un’altra, senza respiro, dove la fine di un capo è solo il passo per l’insediamento di un altro, e così via.
Questa finzione avvolgente, continua, estrema, non dà il tempo di pensare. Il film è privo di sentimentalismo, non cerca mai l’effetto, chiede e provoca allo spettatore una reazione puramente razionale, mai emotiva. Assistiamo a una riproposizione quasi giornalistica, pur se realizzata con tutte le tecniche cinematografiche più suadenti, più accattivanti, di una realtà sconvolgente. Il film è perciò, da un lato, carico di elementi “simpatici”, linguaggio vitale come i suoi colori, ritmi incalzanti come le sue musiche, arricchito da una dose di indovinata (auto)ironia (e infatti si ride!), una regia, insomma, originale, bella, di carattere; dall’altro si impone come circo delle meraviglie teso a smentire se stesso. Quegli ammazzamenti ci sono sul serio, quella giungla nella quale sopravvive il più forte, quei bambini sicari o già capetti, le faide, le vendette sono lì, nella vera city of god.
Continua su: http://www.frameonline.it/Rec_Cityofgod.htm