Dark Blue World

Cinema

Danimarca/UK/Germania/Italia/Repubblica Ceca, 2002
Titolo originale: Dark Blue World
Durata: 114'
Genere: Drammatico
Regia: Jan Sverak
Cast: Ondrej Vetchy, Krystof Hadek, Charles Dance, Tara Fitzgerald

E' la storia di un'amicizia tra due piloti cecoslovacchi, di età diverse, che fuggono dalla Cecoslovacchia occupata dai Nazisti, raggiungono l'Inghilterra, si arruolano nella Royal Air Force e s'innamorano della stessa donna inglese, autentica prova del fuoco per la loro amicizia.
Dark Blue World (titolo allusivo di una vecchia canzone ceca) è un film di guerra, per lo spazio che concede ai duelli aerei, ma è una storia d'amicizia e una pagina sconosciuta della sofferenza di un paese europeo che ripensa la propria storia. In Cecoslovacchia il film è stato il più grande successo degli ultimi dieci anni. Premiato al Festival del Cinema di Toronto.

Il regista (va subito detto) è quello di Kolya (1996), enorme successo in patria ceca, distribuito in quaranta paesi, ricoperto di riconoscimenti tra cui l’Oscar per il miglior film straniero nel 1996. Lo sceneggiatore è invece l’attore protagonista di Kolya, apprezzato scrittore e commediografo ceco.
Stiamo parlando della famiglia Sverak, padre attore e sceneggiatore (Zdenek) e figlio regista (Jan) che si cimentano, di nuovo insieme, in questo ultimissimo Dark Blue World.
La storia è frutto dei ricordi e del vissuto degli anni di giovinezza di papà Zdenek, ovvero l’amicizia tra due piloti cecoslovacchi (Ondrej Vetchy e Krystof Hadek) che durante l’occupazione nazista del loro paese fuggono in Inghilterra per continuare a combattere i tedeschi. Ma una volta tornati in patria il comunismo li punirà con la prigionia, perché colpevoli di essersi esposti a una mentalità troppo aperta: quella occidentale.
Durante la conferenza stampa Sverak è calmo, disponibile e sorridente (ma così anche Procacci, e il produttore Erich Abraham: un terzetto che, trovandosi bene insieme, ha deciso di rinnovare esperienze precedenti). E anche nel film di Jan si respira una vena autentica e sincera, la storia vissuta, amata e odiata, della guerra vista e partecipata, l’avventura, la giovinezza e il sentimento. Troppo sentimento. Che non fa diventare Dark Blue World un bel film come lo era Kolya (questo richiamava a una forte tenerezza, riscopriva il lato tenero di un uomo apparentemente duro, e la figura del bambino, che avrebbe potuto compromettere la forte lucidità del film, non metteva la pellicola a rischio di un buonismo scontato).
La polemica contro la dittatura era più forte lì che non qui, anche se lì era rappresentata come tema secondario rispetto quello umano-sentimentale, e qui, apparentemente, come tema portante.

Dark Blue World cede troppe volte all’emozione ricercata (anche il vecchio cane alla fine respinge il pilota!) e al fascino di intensi primi piani; la storia d’amore, per quanto ben interpretata, prende fin troppo spazio, che invece viene sottratto a ritagli della narrazione molto più rilevanti (perché non spiegare con maggiore chiarezza cosa avvenne in Cecoslovacchia dopo la guerra? Perché non dedicare più spazio alla prigionia?). Inoltre, dopo larghe (ma anche belle) parentesi, si arriva al finale decisamente al galoppo, affrettando il passo inesorabilmente, una corsa alla risoluzione finale che si comprime in poche scene madri: sia il rapporto tra i due amici, sia il rientro a casa dell’eroe Franta. Una risposta c’è, e ce la fornisce proprio Sverak, in modo ansioso, quasi a voler chiedere scusa: ci ricorda che il potere della censura distributiva statunitense (è un mercato che non si può ignorare) ha imposto tagli forti (soprattutto alla parte della prigionia) e ha condizionato scelte radicali riguardo all’ossatura della storia.
La vera forza del film risiede comunque altrove: non nella storia d’amicizia, non nella storia d’amore, né nella denuncia della ritorsione dello Stato comunista. È invece tutta nell’estetica e nella velocità di quegli Spitfire (che Sverak definisce “allegri”) che solcavano il cielo tra le mani di un gruppetto di giovani piloti, sicuramente patiti più di volo che non di imprese eroico-belliche. Il fascino che questi aerei esercitano sul regista, frutto anche di una passione dell’infanzia, è evidente; l’eccezionale fotografia di Vladimir Smutny – c’era anche lui nel team di Kolya - è valorizzata dal formato Cinemascope, che perde qualcosa in qualità dell’immagine ma recupera in quantità di informazioni e in spazialità, ed esalta la linea di quei caccia, veri protagonisti della scena e veri padroni dell’aria. Le sequenze aeree (realizzate sia con riprese dal vivo - Sverak ha recuperato due Spitfire autentici e un cacciabombardiere - sia usando modellini, computer e materiale di repertorio sapientemente modificato) sono la parte più esaltante, un momento di vera fusione tra l’uomo e la macchina. Sequenze lontane da quelle americane mirabolanti e improbabili alle quali siamo assuefatti: gli aerei qui compiono acrobazie eccezionali ma reali, e le morbide riprese in volo (spesso piazzando la macchina da presa su uno di loro) celebrano le virtù di questi splendidi apparecchi e degli uomini che li pilotavano, quando la guerra conservava ancora un aspetto umano e quando l’uomo-soldato se ne poteva considerare ancora l’artefice.
Claudia Romagnoli, 25/10/2002
da www.frameonline.it