Prigionieri in Himalaya

Incontro del ciclo “L’ultimo fronte. Il Trentino nella Seconda guerra mondiale”.

Incontri e convegni

Nel corso della Seconda guerra mondiale i soldati italiani catturati dagli Alleati vennero distribuiti ai quattro angoli del mondo: 120mila erano nei campi statunitensi, 70mila in quelli sovietici e la maggioranza, 400mila, in quelli britannici. Questi ultimi furono detenuti in tutti i paesi dell'Impero britannico (Kenya, India, Sud Africa, Egitto, lo stesso Regno Unito, ecc..). I militari italiani catturati sui campi di battaglia dell’Africa settentrionale, dopo un lungo viaggio furono portati India, smistati in diversi campi nella pianura (Bophal, Bangalore…) e molti di loro, furono portati nella città di Yol, nel distretto di Kangra, presso Dharamsala, all'inizio del secolo scorso sotterrata da una frana.
Situato a circa 1.800 metri di altezza alle pendici dell'Himalaya, in quella parte dell'India che si incunea tra il Tibet e l'Afghanistan, il Campo Yol ospitava, insieme a prigionieri di altri paesi, 10mila ufficiali italiani.
Per un lungo periodo la storia del campo non è diversa da quella degli altri: a Yol regnarono sovrani lo spirito d'intraprendenza e soprattutto di inventiva, che servirono ai prigionieri sia a migliorare la vita nel campo che ad accrescere le proprie conoscenze in studi, discipline scientifiche, finanziarie, letterarie, artistiche e sportive, e tante altre attività in cui era indispensabile impegnarsi per non perdersi d'animo, per non perdere la ragione, per avere un obiettivo. Gli italiani riuscirono anche, con mezzi di fortun, a costruire una radio, oltre che ottenere dei distillati di qualità migliore di quelli che avevano i loro carcerieri. I campi erano quattro: il 25, il 26 (riservato agli ufficiali superiori), il 27 e il 28.
Le cose cambiarono all’indomani dell’8 settembre, quando, come in altri campi gestiti dagli Alleati, i prigionieri si divisero tra cooperatori e non cooperatori. Dei 10mila ufficiali presenti al momento a Yol, un quarto, 2.500 si dichiararono fascisti non cooperatori. Gli uomini erano nel complesso giovani ufficiali, 700 dei quali erano appartenenti alla Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale. Era molto bassa la percentuale degli appartenenti alla Regia Marina e alla Regia Aeronautica. Non mancarono le adesioni di ufficiali superiori di carriera: trentacinque tra cui sei colonnelli, cinque dell’esercito e uno della Polizia dell’Africa Italiana.
La rottura non fu indolore: ci furono minacce e pestaggi, si ruppero amicizie, nacquero odi e vendette, il tutto in una buffa caricatura di una guerra civile. Molti tra i non cooperatori, che furono ristretti nel campo 25, autodenominatosi “La repubblica fascista dell'Himalaya”, non erano necessariamente fascisti. Erano invece mossi dal senso di onore o esacerbati dal duro trattamento che gli inglesi e i gurka riservavano ai prigionieri. A Yol, il 21 aprile 1942 (il “Natale di Roma”, in epoca fascista festa nazionale) ci furono manifestazioni e fiaccolate, mentre cantavano l’“Inno a Roma”. Un drappello di soldati indiani, comandati dal capitano Wilson, aprì il fuoco sulla massa dei manifestanti, colpendo alle spalle Ercole Rossi e Pio Viale, due capitani anziani che si ritiravano, obbedendo agli ordini. Sono poi stati insigniti della medaglia d'oro al valor militare.
Il campo 25, subì la trasformazione in campo di non cooperatori tra il gennaio e il febbraio 1944 e si autodonenominò facendo proprio l'ironico appellativo degli inglesi RIF (Repubblican Italian Fascist). La storia dei venticinquisti, che vollero continuare a essere trattati come prigionieri di guerra, d'ora in poi non presenta aspetti particolari. Nel dopoguerra – in un'Italia che vuol dimenticare la guerra – per un breve periodo pubblicano il periodico “Campo venticinque”.
Diversa è la storia dei badogliani. Un gruppo di loro, tra cui alcuni alpini, in cambio della stesura di materiale cartografico di quelle zone, ebbe la possibilità di uscire dal campo. Quegli uomini scalarono, quasi a mani nude, con materiale autocostruito con ciò che si poteva trovare nel campo, con piccozze e ramponi fatte con la latta fusa delle scatolette per alimenti, alcuni monti della catena del Dhaula Dhar, antemurale dell’Himalaya che sovrasta la pianura indiana con i 5287 metri del Gaurijunda. Nel luglio del 1945 una squadra salì una vetta nel Lahoul (6163 metri) e la chiamò Cima Italia. Nell’ottobre dello stesso anno una pattuglia di tre ufficiali raggiunse il lago Moriri, nel Ladakh sud orientale (altopiano del Rupshu, propaggine del Tibet), con una marcia di 550 km a quote fra 4 e 6 mila metri.
Tra i prigionieri di Yol vi furono diversi trentini. Ne ricordiamo due, dai diversi destini: Mario Libardi, che nel 1986 pubblicò “Ricordi di guerra e di prigionia” e “Felice Manzinello”, protagonista del video di video di Agrippino Russo e Diego Busacca “Prigionieri di guerra in Himalaya (Yol Camp 1941-1946)”.

La poco conosciuta vicenda dei prigionieri italiani in Himalaya viene ricostruita e discussa a Trento mercoledì 27 febbraio 2019, alle ore 17,30 (“Sala degli Affreschi” della Biblioteca comunale, via Roma 55), da Massimo Libardi. L’incontro-dibattito è organizzato dalla Biblioteca Archivio del CSSEO in collaborazione con la Fondazione Museo Storico del Trentino.

Costi

Ingresso consentito fino all’esaurimento dei posti a sedere.

Interviene Massimo Libardi. Introduce Fernando Orlandi.