La captive

Kino

Francia/Belgio, 2000
Titolo originale: La Captive
Genere: Drammatico
Durata: 118'
Regia: Chantal Akerman
Cast: Stanislas Merhar, Sylvie Testud, Olivia Bonamy, Liliane Rovère, Françoise Bertin, Aurore Clément, Sophie Assante

Ispirato al 'Prisonnier' di Marcel Proust.
Ariane e Simon vivono insieme in un grande appartamento di Parigi. Ariane è una donna che ama la libertà, Simon invece ama sorvegliarla, accompagnarla ovunque lei vada cercando di incontrarla anche quando lei esce. Simon essendo consapevole di non possedere totalmente Ariane, che anche nei momenti di intimità sessuale scivola via, tenta di infrangere e penetrare il suo mondo, un mondo di ragazze, canzoni, giochi di spiaggia e grandi risate. Lui desidera una totale fusione, una sorta di osmosi alimentata da un bisogno ossessivo di riuscire a penetrare completamente la personalità di Ariane.

di Tijana Mamula
Solo apparentemente un adattamento, La Captive si proclama ispirato al quinto volume dell’opera proustiana, e il retour alla fonte letteraria sembra, in questo caso, dettato appunto dalla "memoria involontaria". Chantal Akerman, che dice di essere cresciuta leggendo la Recherche, ha colto al volo il suggerimento di un adattamento, propostole dal produttore Paulo Branco poco dopo l’uscita, nel 1999, de Il Tempo Ritrovato di Raoul Ruiz. Il lavoro sul testo non risulta fedele in senso lineare. L’ambientazione è moderna, i nomi dei protagonisti sono cambiati, frammenti di romanzo si mischiano con eventi estranei: le scene riportate sono comunque quelle "chiave", ma sempre approfondite e filtrate da un ricordo tutto Akerman.
Procedimento proustiano: nella Recherche stessa non mancano spiegazioni della necessità (non soltanto la possibilità) di vivere la lettura, proprio come lo scrittore vive la scrittura. La Captive è ispirata alla vita, che a sua volta si ispira al romanzo. Non a caso la Akerman, regista "femminista" (e lesbica), ha scelto di trasporre cinematograficamente un volume fortemente incentrato sul tema femminile-sessuale. Un inserimento come quello della conversazione tra Simon e la coppia lesbica, con rispettive riflessioni sulla differenza tra l’amore eterosessuale e l’amore gay ("Non lo so. Non è la stessa cosa. Non siamo nemici" etc.) è del tutto assente dal libro di Proust, e sembrerebbe più un inserto semi-documentaristico proprio del cinema femminista d’avanguardia di cui la Akerman è capostipite. Lo stesso vale anche per la scena con le prostitute. In breve: adattamento di un testo come viaggio nella memoria delle associazioni libere che questo scateni, o la vita sognata da chi la legge.
Così anche la recitazione anti-naturalistica trova una sua raison d’etre più profonda. I due protagonisti vivono una dimensione senza tempo, oppure (e sarebbe uguale) vivono un cristallo di tempo colto in tutta la sua chiara e lenta indefinitezza.
L’assenza della onnisciente e onnipresente narrativa proustiana si sostituisce, in questo caso, con la sottile ma enfatica espressività visiva: l’ovvietà psicologica, che il romanzo svela strato per strato seguendo l’approfondirsi dell’auto-coscienza del protagonista, diventa ovvietà in qualche modo spaziale. Il vagabondaggio determinato della verbosità di Proust si trasforma in movimento monotono e frenetico dentro uno spazio claustrofobico e immutabile. Esemplari sono le cicliche scene di inseguimento: Simon tallona Ariane a distanza brevissima e più che udibile. Con qualche sguardo appena percepibile dietro le spalle, Ariane rende palese la sua consapevolezza della presenza di Simon. Tuttavia continua a camminare, a farsi inseguire, come se niente fosse. Così i loro dialoghi, privati delle paginate di "filosofizzazione" minuziosa che Proust interpola tra una battuta e l’altra, si manifestano in tutta la loro evasione spensieratamente maniacale (Ariane) e l’accecante desiderio di credere (cosa?) di Simon....
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