La donna scimmia

Kino

Uomo/animale: incontri tra generi
Cinema

Italia/Francia, 1964
Titolo originale: La donna scimmia
Genere: Commedia
Durata: 95'
Regia: Marco Ferreri
Cast: Annie Girardot, Ugo Tognazzi
Copia proveniente dalla Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale

Antonio Focaccia scopre nella cucina di un ospizio gestito da monache una donna, Maria, il cui corpo è interamente ricoperto di peli. La porta con sé e la esibisce come fenomeno nel suo garage adattato a giungla.
Chi è il fenomeno? Quali sono i mostri? Su che basi si regge una relazione d'amore? Ugo Tognazzi trova nel tremendo umorismo del film materia per una smisurata prova d'attore.

"UN PO' DI CIVILTÀ, PERBACCO!"
di Maurizio Grande
Il "cannibalismo" insito nei rapporti umani, i rapporti "predatori" insiti nella vita sessuale (sublimati dall'istituto del matrimonio e "corretti" e neutralizzati dalle sue regole), le strutture dell'esclusione (sociale ed esistenziale), assumono un rilievo e un'estensione che va ben oltre la vicenda di Antonio Focaccia (Ugo Tognazzi) e Maria (Annie Girardot), la donna ricoperta di pelo, il "mostro".
Partendo da un dato certo, da un punto di vista convenzionalmente accettabile (la "anormalità" di Maria, la donna-scimmia), si è costretti ad assegnare il carattere di normalità a tutto ciò che si oppone a lei: personaggi, comportamenti, valori e mondi che invece, nonostante le apparenze e le convenzioni stabilizzate, non sono certamente "normali". Alla fine del film crolla qualsiasi distinzione tra normalità e anormalità, tra mostruosità e naturalità o umanità.
L'ospizio per vecchi in cui Antonio Focaccia (per l'occasione addetto alla proiezione di diapositive sull'opera dei missionari in Africa) trova Maria, la donna-scimmia, tenuta lì "per pietà" a sbucciare patate, non rappresenta certamente la "normalità" della istituzione "efficace" della carità cristiana e della solidarietà umana.
Rispetto al mondo civile della carità cristiana è ovviamente Antonio Focaccia ad essere un "anormale", uno sradicato, uno che vive di espedienti. E Napoli è la metonimia ingigantita, la pars pro toto della separazione, dell'anormalità come esclusione, stranezza, mostruosità. La Napoli della Duchesca, dei traffici illeciti, dove Antonio porta Maria dopo averla facilmente sottratta alla "carità" delle monache. Eppure la degradazione di Maria non finirà con Antonio, ma riaffiorerà nell'Istituto stesso della carità, nell'ospizio delle suore: quando la superiora accetterà di restituire la donna ad Antonio (dopo avergliela tolta perché lui la esibiva in pubblico) dietro la promessa mostruosa di un matrimonio apparente, di superficie, che salva solo l'anima "ufficiale" e la veste pubblica della monaca. La quale finge di credere la santità del sacramento come superiore a qualsiasi bassa intenzione, mentre il gesto adunco della mano rapace sottrae al povero Focaccia le diecimila lire dell'"offerta"-baratto.

Napoli. La Duchesca, il baraccone, la tenda nel cortile-garage dove Antonio vive e dove porta Maria allestendo uno spettacolo incentrato su di lei, sull'avventura fumettistica di lui-esploratore che ha trovato il pericoloso animale (la donna-scimmia) nel cuore dell'Africa e che lo ha catturato sfidando mille pericoli, riuscendo finanche ad ammansirlo, ad ammaestrarlo, il "fenomeno".
Il matrimonio sarà l'ultimo tentativo compiuto dall'uomo per appropriarsi della donna, per disumanizzarla, per sopraffarla. Da ricatto impostogli dalla buona e materna coscienza delle monache, Antonio trasforma il matrimonio in cartellone pubblicitario, in réclame e propaganda per lo spettacolo, per gli spettacoli che ha in mente di fare. La sequenza del matrimonio tra Antonio e Maria è giustamente citata come esempio di regia, di ritmo interno, di tensione emotiva risolta stilisticamente.
Ferreri può giustamente osservare che gli unici rapporti possibili tra le persone sono quelli di schiavitù, o di sesso, o di riduzione ad oggetto. Così Antonio scansa la gente che si addossa a Maria impedendole di cantare, per toccarla troppo e di continuo, esclamando: "Un po' di civiltà, perbacco!", e continuando a gettare riso in aria, riattivando insistentemente la festa.
Con La donna scimmia Ferreri ha chiarito definitivamente la sua posizione nei confronti di parecchi (veri o falsi) problemi critici; come, ad esempio, il problema del suo presunto "humour nero", quello del supposto "neorealismo" dei suoi film, dell'impiego stilistico ed espressivo del grottesco e, finalmente, quello del suo stile, del linguaggio filmico costruito e adottato. Sintomaticamente, ha insistito nelle sue dichiarazioni pubbliche nel distinguere un "humour di tipo inglese" e l'esercizio del grottesco in funzione di deformazione espressiva e caricaturale della realtà. In un'intervista rilasciata nel novembre del 1965 a «Filmcritica», ribadisce la convinzione che sia indispensabile guardare la realtà "con la lente del grottesco", magari trasformandola poi con la fantasia o con il "fantastico che c'è nei sentimenti".
Non si esce dalla spirale di contraddizioni che restituisce l'immagine statica del mondo ferreriano, una violenza tutta immobile e propria della sua immobilità. Antonio Focaccia non esce dal suo sottomondo di vagabondo che vive d'espedienti, dal suo nome "ignobile" (nel senso letterale del termine), dal cerchio separato cui appartiene. Ovviamente non si tratta di "destino", ma della realtà di mondi chiusi, esclusi l'uno dall'altro, solo apparentemente "mescolati" ma in realtà non reversibili e incomunicanti. Antonio non può realizzare che per un momento, illusoriamente, i suoi progetti "geniali", gli spettacoli travolgenti che ha in mente, la conquista dell'universo argentato del varietà, del successo, della ricchezza, del benessere.
(tratto da: Maurizio Grande, Marco Ferreri, Firenze, il Castoro, 1974)

MARCO FERRERI
"Scorbutico, irriverente, provocatore. Un regista mai uscito dal suo coerente, coraggioso, sfrontato percorso. Un autore a cui poco interessavano le storie personali e molto i sistemi globali. Il primo, forse nel mondo, ad accorgersi in tempi lontani di quanto il Pianeta Terra avrebbe avuto a che fare con l'involuzione: della specie umana, dell'ambiente, della cultura" (Fabrizio Liberti). Marco Ferreri (1928-1997) ha girato il suo primo film - "El pisito" (1958) - nella Spagna di Franco. Tornato in Italia, dedica diverse pellicole al tema della famiglia e del matrimonio ("L'ape regina", 1963, "La donna scimmia", 1964, e "Marcia nuziale", 1966). Fra i suoi film più noti, "Dillinger è morto" (1969) e "La grande abbuffata" (1973). Il suo ultimo lungometraggio è "Nitrato d'argento" (1996).