Le invasioni barbariche
Giovedì al Supercinema
Canada/Francia, 2002
Titolo originale: Les Invasions Barbares
Genere: Drammatico
Durata: 112'
Regia: Denys Arcand
Cast: Remy Girard, Stéphane Rousseau, Dorothee Berryman, Louise Portal, Dominique Michel
Rèmy, cinquant'anni, divorziato, si trova all'ospedale. L'ex moglie Louise, chiama il figlio Sébastien a Londra per convincerlo a tornare a casa in questo momento. Sébastien prima esita, poi parte per Montreal per aiutare la madre e sostenere il padre..
Due premi a Cannes, migliore sceneggiatura e migliore attrice, Le invasioni barbariche è un grande, sofisticato calderone di tutti i massimi sistemi che possono arrovellare un individuo: l'amore per la vita e la necessità, ad un tratto, di morire, la fedeltà e il tradimento, l'amore-odio tra genitori e figli, le grandi famiglie degli affetti - perduti, ritrovati, mai veramente sopiti - e le tensioni cultural-politiche.
È una scena molto reale, di vita di provincia canadese, in cui i mali dell'uomo, da sempre civiltà portatrice di sciagure e massacri, arrivano al termine della vita a rappresentare la propria, privata summa peccatorum. Le invasioni barbariche è un film magico e sospeso: riesce a giocare così bene con le emozioni da strappare risa e subito dopo pianti, non per la storia di una malattia quanto per l'impossibilità ad arrendersi al trapasso. Non è un inno all'eutanasia, è un inno all'intelligenza.
Ci sono molti piani per godersi questo film, non fosse altro perché il plot è talmente scientemente congegnato che aziona una serie di reazioni umorali a cascata. Ma quello più bello è il trapasso del figlio nell'età adulta, anzi dei figli. Il broker londinese, oltre a smuovere mari e monti per curare un padre riottoso, difficile, iroso e non collaborativo come tutte le persone intelligenti e passionali che scoprono di avere un grave cancro e vogliono continuare a curarsi nell'ospedale pubblico (caustica e graffiante la scena iniziale del nosocomio canadese similissimo a uno africano per affollamento), ripopola l'ultimo suo scampolo di presenza con i vecchi amici di una vita. Compra tutto: una stanza d'ospedale migliore, la compiacenza degli ex allievi del professore universitario mediocre che fu il padre, dosi di eroina per ricchi, per farlo stare meglio di quanto farebbe la morfina. Gli compra persino Nathalie, una sua vecchia amica di infanzia, eroinomane, per garantire al padre la dose quotidiana di assenza di dolore. La giovane, dura e segnata da una madre assente, decide di disintossicarsi proprio grazie all'uomo morente: prende il posto di chi lo lascia vuoto e fa in qualche modo sua l'incrollabile gioia di vita del paziente incurabile. Lei gli somministrerà le dosi fatali, tante, a ripetizione, nella casa al lago dove, citando il Grande Freddo, tutti gli amici e le amanti di gioventù del malato si ritrovano, orchestrati dal figlio, in una passionale riunione dei bei tempi andati. Aspettando solo la sua morte.
La scena finale è di una bellezza incredibile. Citando personalissimamente il Sam Mendez di American Beauty, il regista sceglie la natura che circondava il morto in vita per staccare la spina. Il bosco di conifere attorno alla casa diventa un ambiente enorme, sviluppato in altezza, la nuova casa della pace.
Va detto che il film non ha una grande resa filmica, predilige la storia ed i dialoghi, ricchi e colti, mai noiosi o ridondanti rispetto a qualche volta in cui le immagini invece lo sono. Troppo poco delineati alcuni personaggi, come Gael, la donna francese di Sebastien, o sua madre Louise, che sembra essere dotata di una gran personalità all'inizio del film e poi via via scompare sotto l'effervescenza donata ad altri personaggi. Che il regime e la cadenza del film siano un vezzo, un tic abbastanza tipico nelle storie e sceneggiate franco-canadesi?
Gli attori non sono tutti bravissimi, o forse sono i personaggi ad essere troppo giganti per uscire sempre bene dal foglio e dalla penna. È un film che va assolutamente visto nonostante sia nato forse da troppo personalismo, peccato che in mezzo alla già insopportabile quantità di pubblicità prima del suo inizio
ci si debba sorbire anche un video promozionale per i venti anni della società che lo distribuisce. Ma che modo strano di fare corporate image.
Diana Marrone da: