La dagherrotipia

Il primo, messo a punto sulla scorta delle esperienze di Niépce dall’artista e scenografo francese Louis Jacques Mandé Daguerre, fu presentato ufficialmente il 7 gennaio di quell’anno  all’Accademia di Francia dallo scienziato François Arago, che ne intuì immediatamente i potenziali, immensi vantaggi per le arti e per le scienze. 

La tecnica, che prese il nome di dagherrotipia, prevedeva l’uso di lastre di rame argentate, rese fotosensibili con vapori di iodio.

Per la ripresa si ricorreva a pesanti apparecchi fotografici su cavalletto; nella versione più antica, messa in commercio da Alphonse Giroux, cognato di Daguerre, la fotocamera, dotata di obiettivo fisso e tappo con funzione di otturatore, era composta da due scatole di legno inserite l’una nell’altra (che nei modelli successivi saranno invece collegate da un soffietto). In questo modo il fotografo, coperto da un telo nero, poteva fare scorrere un vetro satinato che gli consentiva di vedere la scena da riprendere e regolare la messa a fuoco; di seguito sostituiva al vetro la lamina metallica e toglieva il tappo per il tempo necessario all’esposizione, che nella prima fase durava parecchi minuti anche in pieno sole. 

Sulla lastra si formava così una immagine latente, speculare rispetto al soggetto, che veniva poi sviluppata con vapori di mercurio (molto tossico) e fissata con acqua salata. Nascevano così i dagherrotipi: esemplari in copia unica, dalla superficie a specchio, che si caratterizzano per l’aspetto cangiante dell’immagine, positivo o negativo (ovvero a toni invertiti) a seconda dell’inclinazione della lastra. 

Come una Polaroid ante litteram, il dagherrotipo scontava il limite strutturale dell’unicità; l’immagine, delicatissima, richiedeva inoltre particolari attenzioni, perché bastava sfiorarla per danneggiarla irrimediabilmente. Cionondimeno il metodo dagherrotipico conobbe subito uno straordinario successo, per la nitidezza e la bellezza intrinseca di una figurazione che stupiva per la sua minuziosa aderenza alla realtà fotografata. Le immagini, in bianco/nero, potevano essere  ulteriormente vivacizzate tramite la coloritura a mano con pigmenti all’anilina; per proteggerli dall’azione dell’aria e dell’umidità, i dagherrotipi venivano tipicamente inseriti in piccoli astucci sigillati, spesso variamente decorati.

Con questa tecnica furono realizzate anche vedute e riproduzioni di opere d’arte, ma la dagherrotipia trovò la sua applicazione principale nella ritrattistica. Restò in auge per circa un ventennio, fino all’alba degli anni Sessanta, quando, come si vedrà nelle prossime uscite, fu definitivamente soppiantata da altri procedimenti; a prevalere, infatti, sarà il criterio fondamentale della riproducibilità.