I nuovi materiali

Le lastre “asciutte”

Hermann Waldmüller, Il signor Held, 1896, negativo su vetro alla gelatina sali d’argento
Fondo Fotostudio Waldmüller – Ufficio Film e media, Provincia autonoma di Bolzano, via Lichtbild-Argento vivo, CCBY

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Le applicazioni sempre più diffuse della fotografia incentivarono la ricerca di soluzioni che potessero eguagliare l’ottima resa del procedimento al collodio e al contempo sopperire alle relative difficoltà d’uso; alla necessità di preparare manualmente e sul momento i materiali fotosensibili, si aggiungevano infatti i rischi connessi alla manipolazione di solventi (alcool ed etere) che richiedevano numerose cautele, specialmente al chiuso.

A questo risultato contribuì il medico inglese Richard Leach Maddox, che sperimentò l’impiego della gelatina animale, solubile in acqua, come legante per i sali d’argento. Furono necessari anni di prove e perfezionamenti, ma da queste ricerche, presentate nel 1871, emerse un procedimento decisivo per i futuri sviluppi del medium fotografico – di fatto ancora impiegato per la fabbricazione dei materiali contemporanei.

La nuova tecnica prevedeva l’uso di una soluzione calda di gelatina, addizionata di sali alcalini e nitrato d’argento. Una volta applicata sul negativo, la risultante emulsione, con i cristalli dei sali d’argento in sospensione nella miscela di gelatina, poteva essere fatta essiccare senza conseguenze: se conservate in luogo fresco e lontani dall’umidità, le lastre emulsionate, chiamate “secche” o “asciutte” per distinguerle dalle precedenti al collodio, potevano essere utilizzate anche dopo mesi o anni; analogamente, lo sviluppo poteva essere effettuato a distanza di tempo dall’esposizione.

I nuovi supporti presentavano un altro vantaggio dirimente. Alla praticità univano infatti una sensibilità accresciuta rispetto a quella già apprezzabile del collodio. Il successo, prevedibilmente, fu enorme. Della preparazione delle lastre si appropriò l’industria, con l’impiego di macchine a rulli che velocizzarono la stesura dell’emulsione, rendendo del tutto superfluo e antieconomico l’intervento manuale del fotografo.

L’abbandono del collodio e l’adozione dei nuovi materiali semplificarono notevolmente l’attività dei fotografi di studio; la riduzione dei tempi di posa facilitò inoltre la produzione di ritratti più sciolti e animati rispetto a quelli dei primi decenni della storia della fotografia. Una straordinaria attestazione delle modalità di lavoro di un antico atelier fotografico, in regione, è offerta dall’intero lascito dello studio fondato nel 1896 da Hermann Waldmüller nel capoluogo altoatesino, chiuso nel 1986 alla morte della figlia Anna; il fondo, conservato presso l’Ufficio Film e media della Provincia autonoma di Bolzano, include circa 150.000 negativi su vetro e 40 registri che permettono tra l’altro di identificare molte delle persone ritratte.

L’ambito più radicalmente condizionato dall’impatto dell’evoluzione tecnologica, d’altra parte, fu quello della fotografia amatoriale.
Nel 1884, alla produzione di lastre di vetro alla gelatina si aggiunse quella di negativi su pellicola; parallelamente si diffusero macchine fotografiche più maneggevoli e leggere, in latta o alluminio, con mirino per l’inquadratura e obiettivo ribaltabile, che facilitavano il lavoro sul campo.
Alla trasformazione radicale della pratica fotografica, con l’inizio del processo di miniaturizzazione dei supporti e degli apparecchi fotografici, corrispose la moltiplicazione del numero dei fotografi, ormai nell’ordine delle centinaia di migliaia. Questi fenomeni incisero anche sul linguaggio, aprendo nuove possibilità di fotografia “istantanea” e a mano libera, che diedero impulso a generi come il reportage e il souvenir di viaggio.

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km

05/05/2020