"Le notti chiare erano tutte un’alba": Eugenio Montale a Valmorbia

Sulla vecchia scuola elementare di Valmorbia un murale illustra la poesia che Montale ha dedicato alla sua esperienza di guerra in Trentino

Valmorbia, un nome,-  e ora nella scialba / memoria, terra dove non annotta: con questi versi si conclude la lirica attraverso cui Eugenio Montale affida a un ricordo sul quale mai potrà scendere la notte, il periodo da lui trascorso in Trentino durante la Grande Guerra.

Cinquant’anni più tardi - nell’intervista Bello sì ma dopo? rilasciata a Manlio Cancogni - il poeta, ripercorre la sua vicenda di soldato, raccontando anche la sua esperienza in Vallarsa.

Il reparto cui venne assegnato si trovava sotto il monte Corno: «in basso c’era un fiume, il Leno; – ricorda - la valle si chiamava Valmorbia, noi però si stava a mezza costa, fra le rocce, perché il fondo era inabitabile, vi si rovesciava un po’ di tutto, rocce, sassi, fango, schegge, bombe, cadaveri, muli».

Nel dare voce ai ricordi, Montale, sembra voler eludere i momenti drammatici, dando spazio a scene quasi di vita quotidiana: un avamposto austriaco in cui le due sentinelle, per passare il tempo, azionano un vecchio grammofono a tromba, dettagli sulla qualità del rancio che, attraverso il ricordo assume valore mitico di sapore della giovinezza: «sembrava che in quel brodo ci avessero bollito dentro un bove intero, ancora vivo. Il caffè invece era una sbroscia, pessimo, roba da cani».

«Ora dovrei parlare della battaglia finale, di Vittorio Veneto - aggiunge - ma per me i ricordi più indimenticabili sono quelli di certe notti, nella buona stagione, che passavo sdraiato sull’ingresso della mia grotta. Con la luna sembrava che la valle salpasse. In basso sentivo il Leno che mormorava, roco. Sbocciava un razzo, lacrimava nell’aria. Udivo un trepestio insolito, un odore acre mi pizzicava il naso: erano delle volpi venute a farci visita; così, senza accorgersene, si arrivava all’alba». 

A un certo punto, Montale sembra riprendere il contatto con la realtà. Racconta che un giorno gli venne recapitato un biglietto del comandante che lo invitava a scendere a mezzanotte con il plotone. La notte era nebbiosa, così non fu per nulla semplice raggiungere il Leno; alle prime luci dell’alba, continua il poeta, «apparvero davanti a noi degli sconosciuti con le braccia alzate “Bitte, bitte”, gridavano».

L’avanzata decisiva, contemporanea alla battaglia di Vittorio Veneto, fu in ottobre: «Fui uno dei primi a entrare a Rovereto, subito dopo gli Arditi – testimonia -. Non credo di aver mai visto un caos come quello. Porte sfondate, mucchi di spazzatura dappertutto, bombe che scoppiavano, incendi e, ora qua, ora là, i colpi dei cecchini che gli austriaci avevano lasciato indietro per ostacolare l’avanzata. […] Andammo avanti, sulla strada di Trento. In un paese, non saprei più dirne il nome, assistetti alla fucilazione di un nostro soldato, colpevole di saccheggio, credo che avesse rubato un orologio. Alla scarica vidi chiaramente una cosa bianca che saltava in aria, il cervello, mentre il corpo s’afflosciava giù. No, non mi fece un grande effetto. Ma che cosa poteva fare effetto in tali circostanze? Era come un sogno, un grande sogno in cui tutto poteva accadere. Io avanzavo come un sonnambulo. Subito dopo ci dissero che avevamo vinto la guerra».

 

Valmorbia, discorrevano il tuo fondo
fioriti nuvoli di piante agli àsoli.
Nasceva in noi, volti dal cieco caso,
oblio del mondo.
Tacevano gli spari, nel grembo solitario
non dava suono che il Leno roco.
Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco
lacrimava nell'aria.
Le notti chiare erano tutte un'alba
e portavano volpi alla mia grotta.
Valmorbia, un nome ,-  e ora nella scialba
memoria, terra dove non annotta.

la poesia fa parte della raccolta Ossi di seppia (1925)   


04/03/2015